Nome diverso non poteva avere il piroscafo più amato del lago di Como: Plinio il Vecchio nacque qui, sulle sponde di questo lago. E così come gloriosa fu la loro vita, altrettanto tragica la loro morte, avvolti dalle acque. Siamo andati a trovarli. “Nulla dies sin linea”, diceva Plinio; e per questo scrivo queste righe, un po' anche per lui.
A cura di Samuele Marzolo
Più di un secolo è passato da quando uscì dai cantieri svizzeri per cominciare a solcare le acque di quel Lario che tanto caro fu al Manzoni, era il 1903. Ultimo di tre piroscafi a portare con orgoglio il nome del grande Plinio, filosofo naturalista e governatore romano che proprio a Como deve i suoi natali.
Un piroscafo elegante, non a eliche ma a pale la propulsione, spinto da quel motore che già fu del suo predecessore e che a lui fu donato per permettergli di navigare a più di trenta chilometri orari, collegando sponde e trasportando genti e merci e sogni.
Tempi remoti di una tardiva belle époque, di pranzi luculliani e sonore risate, quanta bella gente ha accompagnato su e giù per l’acque.
Ma ora me lo ricordo li, come balena spiaggiata, indifferente e triste, ad aspettare di morire, come liberazione da dolorosa e ingloriosa fine.
Erano gli anni sessanta quando la compagnia di navigazione ne decise la messa in disarmo, da allora fu prima ristorante, poi frangiflutti e infine acquistato per fare bella mostra di sé dinanzi a un ristorante. Non più sulle acque del nobile lago ma in quel di Verceia, nel lago di Mezzola, più a nord.
Mutilato di alcune sovrastrutture che ne avrebbero impedito il trasferimento negli ultimi anni della sua vita lo ricordo ormeggiato a pochi metri da riva, una fiera in catene. Si erano oramai scordati del tempo in cui fece da scorta alla nave del re Vittorio Emanuele, o dei meravigliosi balli che si svolgevano nelle sue stanze, donne in lunghe gonne voluminose e uomini baffuti adorni di gilet e orologio da taschino. I contadini di terza classe con le gerle colme di fatiche da offrire ai mercati sulle rive. Tutti viaggiavano sul Plinio, aristocrazia e popolo, ponti per alcuni eran soffitto per gli altri.
9 dicembre 2010, un giovedì di tardo autunno come tanti altri.
Un ultimo sussulto, forse l’orgoglio, un fortunale a fare da inconsapevole complice, cime e catene che cedono, mi piace pensare che le abbia strappate lui e poi, poi giù, nel buio di quelle acque che furon per lui gloria. In barba a tutti ora è lì, delicatamente poggiato al fondo, prua a nord, sembra pronto a salpare, circondato da una costante bruma impalpabile che lo nasconde agli sguardi di chi prova a raggiungerlo per una visita.
“Non mi avete voluto là sopra, non vi voglio quaggiù!”.
Anche oggi ha provato a celarsi. Il Gianni, “custode del lago” e caro amico, ci accompagna fin sopra la verticale del Plinio al traino, più comodo che doversi tuffare dalla piccola barca. La sottile sagola ha fatto presa sulla struttura del relitto, la fisseremo bene quando arriveremo su di lui. L’acqua sembrava “buona” e invece, bianco ovunque fin dai primi metri. Ci rendiamo conto che non sarà un tuffo semplice, pollice e indice ad anello per non interrompere il contatto con la cima, bianca anche lei si perde nel candido all’intorno e pur essendo a un braccio dagli occhi a tratti non riesci a vederla. Se manchi il relitto non lo ritrovi più, si sa, il Plinio è cosi, si nasconde. Come scrive il “Murdock” nel suo libro, il Plinio è un atto di fede, sai che c’è. lo raggiungiamo di poppa, forse il punto peggiore per iniziare la visita, il computer segna quaranta metri e noi abbiamo previsto 27 minuti di fondo prima dello stacco. Andrea assicura la cima e si prepara a srotolare il reel, veloci cenni d’intesa con David e si va, voglio proprio salutarlo il Plinio, lo sfioro con un dito per assaporarne meglio la presenza. La visibilità come spesso accade qui è pessima, la luce del sole non riesce a fare capolino nonostante sia al suo azimut, è nero pece e una densa sospensione non fa che peggiorare le cose. Siamo costretti a procedere quasi sfiorando lo scafo per non perderlo di vista. La battagliola, il pennone dove un dì volteggiava il tricolore che si oblia nell’oscurità e quelle che furono le porte del salone delle feste, il grande tendalino di poppa che penzola ormai lacero come lenzuolo steso al sole di un futuro post apocalittico dalle strutture che lo sorreggevano. Quante genti hanno goduto dei sui servigi. E infine lei, la scritta, il nome, le lettere a comporlo in un misto di sorpresa ed emozione che ti assale; non sono verniciate, nemmeno applicate allo scafo ma intagliate nella lamiera che protegge il cuore di questo meraviglioso piroscafo, la ruota a pale.
Sembra quasi di vederla meglio, o forse sono solo le torce che fanno il loro dovere. “P, L, I, N, I, O”.
Purtroppo la visibilità già pessima ci costringe a interrompere l’immersione, non arriveremo a prua, forse la prossima volta, è ora di tornare alla cima, passeremo il tempo della decompressione assorti ognuno nei propri pensieri, a fissare in noi le emozioni.
Caro amico mio Plinio sono un po’ di anni che non ti vedevo più, sei cambiato.