«Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole», scriveva Giovanni Verga.
Consapevoli della delicatezza del tema “subacquea e salute mentale”, vogliamo qui richiamare il valore di una testimonianza. Per mantenere viva la sensibilità verso un’immersione davvero “per tutti”.
A cura di Isabella Furfaro.
“L’immersione subacquea e le connesse eventuali attività risocializzanti che vi ruotano intorno, se inserite in specifici percorsi di cura e riabilitativi, possono rappresentare una utile sperimentazione sulle opportunità evolutive dell’individuo…”, anche nel caso di complessità come quelle connaturate alla salute mentale. Oggi, tutto ciò, più o meno, lo sappiamo. Ma appena pochissime decine di anni fa mancava ancora qualsiasi consapevolezza allargata di questo genere. Eppure le cose, certe cose, accadevano. Rilanciavano sfide. Ed erano già conferme, lasciavano impronte indelebili, a futura memoria. Sentite questa: è una testimonianza d’autore!
«Risale a metà degli anni ‘90 l’idea del talentuoso medico di mia conoscenza, che si occupava della cura delle malattie mentali, a seguito della quale mi chiese se volevo supportarlo in uno dei progetti che stava realizzando a favore dei pazienti ospiti della Comunità terapeutica di cui era Responsabile.
Il medico in questione è un esperto psichiatra, attualmente in pensione, che per anni ha lavorato presso Strutture sanitarie pubbliche, dapprima presso i Centri Diurni, poi come Responsabile di una Comunità terapeutica di una ASL romana. Si tratta di Strutture sanitarie che hanno come scopo la cura, riabilitazione, risocializzazione, inclusione, di pazienti affetti da patologie psichiatriche con diversi livelli di gravità.
Nel caso specifico il fulcro delle attività era ed è tuttora rappresentato dalla riabilitazione di tipo “terapeutico” a cui si affianca, ove necessario, il trattamento farmacologico. Alle terapie, spesso, si affiancano attività risocializzanti e laboratori tematici.
Il progetto che mi fu proposto era quello di seguire, come Istruttore referente, un laboratorio dedicato alle attività natatorie e subacquee con lo scopo di far sperimentare e sviluppare ai ragazzi ospiti della Struttura la loro capacità di autonomia, impegnandoli in attività che, come quelle subacquee, necessitano di attenzione, concentrazione, programmazione e autocontrollo.
Il progetto si svolgeva in coordinamento con il programma di autonomia individuale e socio-relazionale portato avanti all’interno del percorso seguito dai pazienti della Comunità terapeutica.
Fui subito entusiasta ed emozionata per l’importante e sfidante proposta. Consapevole della responsabilità che mi veniva affidata e non avendo ancora concluso il mio percorso formativo di Istruttore subacqueo, mi impegnai nel conseguimento del brevetto di Assistente bagnanti presso la Federazione Italiana Nuoto, al fine di regolarizzare la mia presenza in piscina con i miei futuri allievi.
Iniziai così la mia nuova attività di Istruttrice con alcuni dei ragazzi selezionati dal medico anche con la finalità di farli giungere addestrati ai soggiorni estivi che la Struttura sanitaria organizzava in una località di mare in Calabria, con il supporto di un diving del posto.
Maschera, pinne, gav ed erogatori alla mano, seguendo uno specifico iter didattico, i miei allievi si approcciavano a questa nuova esperienza in modo totalmente personale, ognuno secondo le proprie capacità. In più occasioni gli incontri in piscina diventavano oggetto di discussione con il terapeuta, sia durante le sedute di psicoterapia individuali che di gruppo, mentre le eventuali difficoltà manifestate da qualcuno degli allievi diventavano per me motivo di fruttuoso confronto con il medico.
Sapevo che non esisteva nessun manuale che potesse indicarmi nel dettaglio cosa fare con i miei originali allievi. Alcuni non avevano familiarità con l’acqua ma avvertivo in loro il desiderio di acquisirla. Dopo le prime prove in piscina gli allievi cominciarono ad apprendere nuove abilità e, gradualmente, a concedermi la loro fiducia.
Ravvisai forte l’esigenza di dover ricavare nuovi spazi di tempo da dedicare al mio nuovo impegno, senza gravare sulla mia attività lavorativa e sullo studio e cominciai ad assistere ad alcuni incontri svolti a favore degli operatori della Comunità, tenuti dal dottore Responsabile del progetto insieme ad altri medici della Struttura.
Dal punto di vista della pratica fu fondamentale la mia attività di Istruttore subacqueo maturata in mare grazie ai miei preziosi e numerosi maestri.
Dal punto di vista relazionale feci tesoro di quanto colto durante le riunioni in Comunità e di quanto maturato nei miei percorsi formativi personali. Per il resto, mi affidai all’intuito e al buon senso!
Compresi che era fondamentale instaurare un rapporto, un’intesa personalizzata con ciascuno di loro da trasferire poi, in maniera integrata, nella dinamica dell’intero gruppo confidando nel fatto che, nella pratica sportiva subacquea, il gruppo diviene un moltiplicatore di esperienze e ciò che viene fatto da uno viene appreso anche dall’altro e viceversa.
Con la didattica personalizzata sulla base delle capacità di ciascuno, fu possibile, già alla conclusione del primo anno di piscina, conseguire gli obiettivi prefissati: dalla semplice acquisizione dell’acquaticità si passò ad esercitazioni natatorie propedeutiche alla subacquea e all’apnea, sino a giungere a delle vere e proprie immersioni in mare.
Il laboratorio tematico “piscina” è cosi proseguito per alcuni inverni.
Il mio percorso formativo insieme al forte coinvolgimento emozionale, mi indussero a riportare l’originale case study nella mia tesi di laurea in Sociologia, dedicata, appunto, alle svariate dinamiche che si attivano nei gruppi, con un focus dedicato a quella straordinaria esperienza di “gruppo subacqueo” vissuta in prima persona.
Mi piace ricordare che un giorno invitai presso la sede della Struttura sanitaria il professore relatore della mia tesi – che a breve sarebbe divenuto preside della mia facoltà – al fine di fargli constatare “dal vivo” come si svolgevano le attività. Ne rimase letteralmente affascinato.
La prima sperimentazione in mare avvenne tra i fondali della splendida isola di Dino, in Calabria, grazie al solido supporto dell’associazione subacquea DinoSub.
In un clima accogliente e comunicativo, i ragazzi della Comunità parteciparono da protagonisti a tutte le attività, prendendo parte ai briefing condotti dal medico Responsabile del progetto – anche egli esperto subacqueo – effettuate prima delle immersioni e a fine attività, nonché alla gestione delle attrezzature subacquee. Uno dei ragazzi riuscì, in poco tempo, a guadagnarsi il brevetto di immersione di primo grado e, successivamente, trovò lavoro presso un negozio romano di vendita di attrezzature subacquee.
L’esperienza proseguì per alcune estati successive, approdando a Paola, supportati, con grande professionalità, dal Gruppo Subacqueo Paolano.
Due considerazioni conclusive: la prima è riferita alla valutazione su come l’attività subacquea e le attività risocializzanti che vi ruotano intorno possano rappresentare, se inserite in specifici percorsi di cura e riabilitativi, una utile sperimentazione delle possibilità evolutive dell’individuo, anche in situazioni molto complesse e problematiche.
La seconda è riferita alla constatazione, consolidatasi negli anni, su come il costante e deciso impegno personale e progettuale, nel caso specifico del mio amico medico verso i suoi pazienti, legato ad una solida impostazione teorica, il suo “non mollare” mai, anche a fronte di pazienti affetti da patologie gravi, possa davvero produrre notevoli risultati o rendere comunque vivo e rigeneratore di speranze, il percorso di persone altrimenti accantonate nei luoghi della rinuncia e della mera sopravvivenza.
Con tale stato d’animo, desidero condividere, con un misto di commozione e di riconoscenza, parte del contenuto di un biglietto che uno dei pazienti ha scritto al mio amico medico, il dott. Mariopaolo DARIO: “… Grazie per la speranza che mi ha ridato …”.» (Isabella Furfaro)