Le barriere artificiali eco-compatibili per lo sfruttamento sostenibile delle risorse nel Mediterraneo. Un’opportunità rivolta a tutti.
Di Daniele Tibullo
La forte pressione antropica esercitata sulle risorse ittiche (inquinamento, over-fishing ecc) ha stimolato la comunità scientifica internazionale a ricercare strategie utili per raggiungere un equilibrio tra la produzione e le attività di prelievo. Il problema è stato e viene affrontato considerando primariamente gli aspetti di carattere ambientale, non collegando quindi i fenomeni di depauperamento della fauna ittica a questioni economiche, quanto piuttosto alle implicazioni che questi hanno sugli equilibri ambientali. Ovviamente, il tipo di approccio al problema appare diverso, se attuato con attenzione alla necessità di restituire competitività e produttività alla pesca professionale, ovvero a quella di ristabilire condizioni di naturalità e di rispetto della biodiversità senza comprometterne la qualità. Una delle metodologie d’intervento indicata quale attuabile e percorribile è la creazione di aree protette (oasi marine) all’interno delle quali non sia possibile attuare forme di prelievo distruttive e in cui sia possibile l’esercizio di tipiche attività marine quali la pesca sostenibile, praticata con strumenti di cattura compatibili, le attività di pesca ricreativa e subacquea, la fotografia, la videoripresa sub e le perlustrazioni guidate alle barriere sommerse per gruppi di turisti interessati a visitare l’ambiente marino. La creazione di questi areali avviene con la posta in opera sul fondale marino molle di strutture in grado di realizzare meccanismi tecnico-ecologici e di ingegneria ecologica utili per l’attecchimento di uova di specie bentoniche, in grado di fungere da rifugio per le specie stanziali, atti a incrementare la produzione di biomassa e a garantire – con il posizionamento di alcuni stop/net – una valida azione di contrasto alla pesca a strascico illegale e di conseguenza favorire ed esaltare il naturale ripopolamento della flora e della fauna marina. Tali strutture rappresentano anche una possibile soluzione ai problemi del recupero ambientale dei fondali degradati da uno sforzo di pesca troppo intenso, da fenomeni di eutrofizzazione e da un eccessivo apporto detritico.
L’origine delle barriere artificiali sembra essere molto antica tanto che alcuni autori riferiscono della loro esistenza già intorno al 1650. Come spesso accade nel campo della pesca, questi primi esperimenti furono fatti in Giappone e riguardano semplici costruzioni di pietre sovrapposte affondate nella baia di Urato nell’isola di Shikoku.
Per quanto riguarda il Mediterraneo è noto da tempo, soprattutto nel bacino centrale (Malta e Sicilia), l’uso di strutture ancorate al fondale ma galleggianti composte da canne (dette per questo “cannizzati” o “incannizzati”) per attrarre e concentrare pesce in determinate aree. Le prime barriere artificiali propriamente dette risalgono invece alla fine degli anni ‘60 in Francia e in Italia. Attualmente i paesi più attivi nella realizzazione di tali strutture sono l’Italia e la Spagna, seguite da Israele, Inghilterra, Portogallo.
In Italia, il primo esperimento di barriere artificiali, progettato secondo criteri scientifici su scala semiprofessionale, è stato realizzato nel 1974 nell’Adriatico centrale (Porto Recanati) dall’Istituto di Ricerche sulla Pesca Marittima di Ancona; a questo primo esperimento pilota hanno poi fatto seguito altre iniziative, tra cui quelle di Fregene, del Golfo di Castellammare e del Mar Ligure (Golfo Marconi e Loano).
È ormai riconosciuto che le barriere artificiali consentono all’uomo di influenzare il comportamento e l’abbondanza degli organismi acquatici, anche se ancor oggi si cerca di comprendere se tali strutture, costruite allo scopo di realizzare oasi di ripopolamento, provochino l’aggregazione della biomassa ittica già esistente nell’ambiente circostante piuttosto che la nuova produzione di pesci. La maggior parte degli studi effettuati indicano comunque che le barriere migliorano la pesca poiché rendono più accessibili le risorse già esistenti. Infatti, in seguito all’installazione delle barriere, il primo effetto è l’attrazione dei pesci verso le strutture artificiali, per via dell’abbondanza di cibo e rifugio; successivamente, attraverso la creazione di catene trofiche stabili, si può parlare di accrescimento naturale della biomassa sfruttabile ai fini di pesca.
Le barriere artificiali sono strutture più complesse degli ambienti naturali circostanti e la loro collocazione in ampi fondali arenosi rende tali strutture delle vere e proprie “oasi marine”. Queste, modificando il “monotono” ambiente sabbioso sul quale sono posizionate, favoriscono l’incremento della diversità di specie ittiche, in quanto attirano anche pesci tipici dei fondali rocciosi. I dominatori di una barriera sono i pesci “necto-bentonici”, ovvero quelli che, pur muovendosi spesso liberamente nella colonna d’acqua, in qualche misura hanno rapporti con il fondale, soprattutto durante alcune fasi del loro ciclo vitale particolarmente sensibili nel corso dello sviluppo (per esempio le fasi giovanili) o anche durante le fasi di accoppiamento. I pesci necto-bentonici sono generalmente specie pregiate di substrato duro (saraghi, dentici, orate, spigole, corvine, ombrine, mormore, labridi, occhiate, pagelli, ecc…), la cui presenza nei fondali sabbiosi è episodica prima dell’installazione della barriera. Essi, insieme ad alcuni crostacei e molluschi, trovano rifugio nelle oasi di ripopolamento, che forniscono nuovi habitat per la colonizzazione da parte di uova, larve e giovanili di tali specie, favorendone il reclutamento.
Le strutture sono popolate anche da pesci prettamente “bentonici”, cioè che vivono costantemente sul fondo, tra i quali quelli tipici dei fondali mobili (fangosi o sabbioso–fangosi) che normalmente si rinvengono nell’area (sogliole, triglie ecc.), ma anche specie di substrato duro che s’insediano nelle cavità dei massi, ad esempio scorfani e gronghi.
Anche i pesci pelagici, viventi cioè esclusivamente nella colonna d’acqua, come ricciole, lampughe, tonni, sardine, acciughe, cefali, boghe, salpe, suri, alose ecc., sono irresistibilmente attratti dalle barriere artificiali.
Le strutture delle barriere di ripopolamento furono realizzate nei primi esperimenti su scala artigianale in Giappone utilizzando massi impilati, tronchi e sacchi di sabbia e solo successivamente materiali artificiali come tubi di ceramica e vecchie imbarcazioni. Nel sud-est asiatico ancor oggi vengono utilizzati moduli in bambù e fasci di mangrovie. Agli inizi degli anni Sessanta la necessità di smaltire scarti vari e limitare i costi ha condotto, soprattutto negli Stati Uniti, verso l’utilizzazione di materiali come rottami di automobili, pneumatici, vecchie barche, copertoni, barili di petrolio usati, prodotti derivati dall’edilizia (pezzi di cemento, tegole, mattoni ecc.).
Tuttavia queste iniziative, prive di qualsiasi supporto scientifico, si sono rivelate fallimentari, evidenziando numerosi inconvenienti: molte superfici sono, infatti, risultate inadatte all’attecchimento di organismi sessili, altre si deterioravano molto facilmente (legno e lamiere), altre rilasciavano sostanze nocive per gli organismi, come vernici, olii e metalli pesanti.
Tutti questi problemi hanno condotto verso un atteggiamento più scientifico e attento innanzitutto alle questioni ambientali; attualmente la tendenza è infatti quella di impiegare materiali realizzati “ad hoc”, più resistenti, non inquinanti e di più facile utilizzo.
Ad oggi, grazie ad una tecnologia del tutto italiana, azienda leader Tecnoreef, coperta da più brevetti e che gode della protezione giuridica internazionale, le barriere artificiali sono costituite da manufatti in calcestruzzo armato prodotto con elementi naturali. Può essere assemblato in svariate combinazioni e permette la costituzione di strutture stabili e complesse su fondali marini e lacustri capaci di interagire con l’ambiente circostante. Questa tecnologia del calcestruzzo armato sea-friendly (Tecnoreef) permette di realizzare moduli di qualsiasi forma, che si deteriorano lentamente in acqua, forniscono un ottimo supporto agli organismi sessili (mitili, ostriche ecc.) e, se modellati con opportune cavità, danno rifugio a molte specie ittiche oltre a essere abbastanza pesanti da contrastare la pesca a strascico.
Tutte le tipologie di barriere artificiali rappresentano un valido intervento nella gestione razionale della fascia costiera, in particolare nell’incremento della fauna d’interesse commerciale e sono un mezzo per il ripopolamento attivo; inoltre, all’interno delle aree protette mediante barriere artificiali è possibile sviluppare iniziative alternative alla pesca come ad esempio proprio le escursioni subacquee.
2 Comments
Marco Caronna
Molto interessante
Florio
Strutture Spettacolari. Ho Visto anche i Video su FISHING TV r devo dire che e’ una Invenzione Fantastica . Tutte le Regioni Dell’ Adriatico e del Tirreno, Dovrebbero Obbligatoriamente Depositare queste Stutture a 3-5-Miglia dalla Costa per il Ripopolamento Ittico e per Impedire con queste Strutture la Vigliaccata delle Reti a Strascico.