Attenzione: questa cubomedusa è presente in Mediterraneo. Ma è diversa dall’australiana. E non uccide come quella! Un pizzico di chiarezza su questo e altri casi, prima che la disinformazione prenda il sopravvento.
A cura della Redazione. Foto Carybdea marsupialis di Chiara Scrigner.
Prima che la stampa generalista possa farsi venir voglia di assassinare qualche altro biologo marino o subacqueo con ulteriori sfondoni agostani – di cui non è dato sapere quanto fossero casuali o meno – oppure qualche leone da tastiera sia colto dall’irrefrenabile impulso di sparare sciocche fake-news in rete, offriamo il nostro umile contributo di chiarezza circa la presenza di meduse realmente pericolose nei nostri mari.
È infatti ancora vivissima l’eco di aver visto riportare nientemeno che su “La Stampa” redazione on-line la notizia del “misteriosissimo”, “sconosciuto”, organismo marino, “pieno di tentacoli”, di cui addirittura “esperti interpellati ad hoc” (senza peraltro citare chi!) non avevano saputo fornire elementi d’identificazione, mentre di altro non si trattava se non del bellissimo “Astrosparthus mediterraneus”, alias “stella gorgona”, arcinoto a quasi tutti i subacquei.
Né possiamo tacere il report dell’episodio di morso al polpaccio – con conseguenti 20 punti di sutura – ai danni d’un bagnante mentre sguazzava in acqua bassa, davanti a una spiaggia di Torino di Sangro, provincia di Chieti, in Abruzzo; episodio che il sito “caffeinamagazine” ha attribuito a ciò che definiva “squalo blu” nel relativo articolo, non solo senza riportarne il nome scientifico (Prionace glauca), ma addirittura chiamandolo per ben 5 volte “ventresca”, probabilmente per voler dire “verdesca”, parola che però compare una sola volta come tale. Una svista? Un refuso? Un correttore automatico che s’è messo a dare i numeri? Non abbastanza, per giustificare un simile 5 a 1 a favore dello sbaglio, vi pare? E c’è forse qualcuno che ignora che “ventresca” è un termine attribuito comunemente a una parte del tonno?
Ma veniamo a noi. Qualche giorno fa, durante un’immersione notturna, è stata avvistata e fotografata nel golfo di Trieste, di fronte a una spiaggia, nientemeno che una “cubo-medusa”, o “medusa-scatola”, quella che vedete nella foto d’apertura. Molti erano ancora memori del clamore di due morti accertate verso fine luglio – entrambe bambini, nella stessa zona delle Filippine – purtroppo vittime per l’appunto di una “cubo-medusa”, la famigerata “vespa di mare” (o box-jellyfish), letale in molti casi per l’essere umano nel giro di pochissimi minuti dal contatto con le sue nematocisti. Il dubbio a prima vista può sorgere spontaneo: sono lo stesso organismo?
La risposta è “NO”! Anche se i due organismi presentano – come vedete – diverse similitudini, al punto da far risultare inquietante l’avvistamento triestino, non si tratta affatto dello stesso organismo, né i due hanno la stessa pericolosità. La “versione nostrana”, oggi diffusa nel Mediterraneo specie in Adriatico – sebbene non frequente e d’originaria provenienza atlantica – è la Carybdea marsupialis, accreditata di un potere urticante simile o anche superiore a quello della “Pelagia noctiluca”, tale da porla spesso in testa alla classifica della tossicità tra le meduse presenti nei nostri mari, ma non fino a risultare mortale. Mentre l’altra, chiamiamola con licenza di approssimazione “la versione orientale” in questione, è la terribile Chironex fleckeri, tipicamente australiana o dell’indopacifico e assente in Mediterraneo, in grado di uccidere entro qualche istante.
Le cubomeduse hanno comunque in comune apparati sensoriali complessi: ne è nota l’elevata sensibilità alla luce, per cui incontrarle in notturna e nei pressi dei litorali è più facile che di giorno (sarebbero infatti attratte dall’illuminazione della costa nella notte, così come dalle luci dei subacquei); una grande velocità di movimenti e di spostamento; una trasparenza quasi totale, che rende difficile avvistarle di giorno; dimensioni molto piccole del cappello a forma di scatoletta (circa 3 cm di lato la Carybdea marsupialis) e filamenti molto più lunghi del corpo, nella Carybdea di circa 10 volte, nella Chironex anche molto di più. I filamenti – che è improprio chiamare “tentacoli” – sono 4 nella Carybdea (uno per ciascun angolo di base del “cubetto” che costituisce il corpo) e in gran numero invece nella Chironex. Anch’essi molto trasparenti, pressoché invisibili, donde il rischio del contatto e la conseguente pericolosità, sebbene per la Chironex esista comunque una sorta di antidoto, efficace però solo se somministrato immediatamente.
Resta indiscusso il fascino un po’ onirico del fortuito incontro notturno nel mare di Trieste, che è valso alcuni scatti fotografici degni di immersioni ben più particolari, come le “black-water” – o “black-dive” –, delle quali non ha avuto nulla da invidiare. Provare per credere!