Un tuffo nel regno dei grandi pelagici insieme ai più incredibili esseri giocolieri del blu. Specchiandosi nel loro sguardo.
A cura di Romano Barluzzi. Immagini video di Chiara Scrigner
Quanto si è scritto sui delfini? Oceani d’inchiostro, anche da prima che l’inchiostro esistesse. Da sempre. Eppure trovarcisi insieme è differente. Se poi accade nel loro ambiente naturale – e per di più in Mediterraneo, cioè non davanti a un comodo resort di mari tropicali all’altro lato del globo – la faccenda prende un sapore proprio speciale. Sapevo già tutto quello che m’era stato possibile imparare della loro anatomo-fisiologia. Sapevo del loro respiro e della loro apnea, del loro sangue caldo e perfino del loro sonno. Già ero stato incantato dalle registrazioni del loro vocío. E sapevo della loro pelle particolarissima – le cui modificazioni idrodinamiche permettono loro le prestazioni natatorie che li hanno resi proverbiali – per averla perfino toccata. Successe dentro un acquario e tanto bastò per farmi restare nell’animo il ricordo indelebile di quella carezza pur così fugace. Quel che ancora non sapevo, una sera che ci siamo diretti fuori dal Plemmirio per diverse miglia, era che sarei potuto entrare in mare aperto in loro presenza. In mezzo a loro.
Anche di questo avevo sentito un po’ tutto e il contrario di tutto. Il delfino ha una natura di scaltro predatore e la gente di mare, al pari degli studiosi esperti, non ha mai scommesso che quell’immagine un po’ sdolcinata che tanta televisione e filmografia ci hanno fin da bambini propinato – con quella diseducativa tendenza a umanizzare per forza tutti gli animali – corrispondesse completamente al vero. Così si rincorrono anche racconti sull’aggressività e l’impulsività di questi cetacei, quasi al pari di quelli sulla loro socievolezza e affinità per gli umani. Di certo c’è che il comportamento di chi di mare ne sa di più per esperienza diretta è quantomeno cauto. L’atto stesso di buttarsi in acqua quando si è al cospetto di un banco di delfini viene soppesato e quasi sempre sconsigliato dai conduttori delle imbarcazioni, specie se in presenza di molti “cuccioli”.
Ma, vuoi la complice compagnia umana a bordo, vuoi i colori del tramonto sul faro di Capo Murro di Porco, mi decido a entrare in mare, non appena il capobarca dà il suo disco verde, in seguito a una abile quanto paziente strategia di reciproco avvicinamento col banco di cetacei. Che ora sbucano pacatamente da ogni direzione, forando una superficie talmente liscia da sembrare immobile. Subito prima di entrare mi coglie un solo pensiero, del quale non so nemmeno la veridicità: “beh, in fondo, se ci sono loro (i delfini), vuol dire che non può esserci nessun altro…”. Già, perché trovandoti sopra un chilometro di profondità, proprio in quel punto, in un’ora in cui l’angolazione dei residui raggi solari è talmente acuta da non farli più penetrare sott’acqua quasi per nulla, così che guardare sotto permette di scrutare un blu così cupo e limpido da perdercisi dentro, lì per lì non fa un effetto molto rassicurante. Né basta a confortarmi che a entrare in acqua siamo in tre. Dopotutto si tratta d’uno spazio di mare in cui è stato già avvistato un vario assortimento di animali di taglia (balene, capodogli, orche, tartarughe, aquile di mare ecc), del quale anche lo squalo – compreso il grande bianco – fa parte. E in quel blu in cui in quel momento non riesci nemmeno a immaginare cosa mai possa esserci, per quanto ti sembra immensamente “vuoto”, all’improvviso senti qualcosa.
E’ l’eco dei loro “click” e dei “fischi”, le sequenze sonore che emettono e ricevono. I messaggi che si scambiano in quell’immensità, anche senza vedersi. Poi eccoli! Ne arrivano due, come materializzati dal nulla. Un attimo dopo sono quattro. Solo allora cominci a realizzare che quel che ascoltavi non è un chiacchiericcio: hai la netta sensazione dell’essenzialità del loro parlare. E senti che è proprio di te che stanno parlando. Ti studiano e studiano il da farsi. Intanto è chiaro che non rappresenti una minaccia: non si tratterrebbero così vicini. Anzi, le distanze si accorciano ancora. Due s’incontrano un attimo, profondi sotto la barca, e subito dopo si dividono in direzione opposta accelerando. Uno dei due viene dritto da te, ti punta come farebbe un aereo da combattimento. Quella che per una nave da battaglia sarebbe una rotta d’attacco. Nel frattempo con la coda dell’occhio scorgi altri esemplari, saranno ormai sei, sette o più? Niente, non fai in tempo a contarli meglio perché quello che ti puntava ti ha quasi raggiunto e ti viene da stare attento solo a quello. Ma all’improvviso vira e ti si piazza di fianco, immediatamente raggiunto dall’altro cui non avevi più fatto caso. Ora ce li hai accanto entrambi, a una distanza che potresti toccarli semplicemente allungando il braccio.
Il loro occhio, così mobile, espressivo e diverso da quello dei pesci, ti scruta in ogni dettaglio. “Dio, quanto siete belli!” è tutto ciò che ti viene in mente. Tutto ciò che esiste, in quell’attimo, al mondo. Inavvertitamente l’hai farfugliato nello snorkel, da quanto volevi dirglielo…chissà se t’hanno sentito? Attimi che sembrano durare un’eternità, tanto il tempo pare dilatarsi, fuggono via e la situazione muta ancora. Adesso di delfini ne puoi contare ben tredici, tutti nella stessa scena. Si tratta di almeno tre nuclei familiari, forse a loro volta componenti di un banco ancor più grande. Due piccoli schizzano sincroni fuori dalla superficie: per la prima volta li vedi da sotto rituffarsi, anziché da sopra emergere. E la maestria che esprimono è identica. Forse gli altri sono tutti là attorno, da qualche parte, semplicemente fuori dalla tua portata visiva. Mentre continui ad avvertire l’intreccio dei loro suoni che, abbinati al linguaggio dei loro movimenti, sanno di precisione e di armonia.
E’ il mare la casa dove vivono, e lì sono sempre loro a condurre il gioco: devi solo lasciarglielo fare, non devono mai vivere l’impressione che qualcosa che tu stai facendo li ostacoli o li minacci. Se sai fare questo, se sai stare nell’acqua senza disturbare neanche quella, loro lo avvertono. O almeno è quanto mi piace pensare che succeda. Di quegli attimi resta comunque qualcosa che ti fa diverso da prima: più ricco, forse. Più tranquillo, senz’altro. Uno strano senso di felicità semplice. Il ricordo di esserti sentito così microscopico in quelle vastità, goffo bipede dalle protesi pinnate, così trasparente agli occhi di quelle creature tanto nobili e capaci. Intanto che torni di continuo con la mente al loro mistero, a chiederti da dove vengano, dove vadano e cosa facciano o che pensino nel loro girovagare verticale tutto blu. O se di notte sognino. E se incarnassero purissimi e liberi spiriti del mare? Di certo vi siete fatti compagnia, scambiandovi emozioni profonde, autentiche come quelle voci sull’abisso. Per attimi incancellabili dal cuore.
(Devo un GRAZIE tutto speciale ai perfetti “complici” che mi hanno permesso di vivere quest’inaspettata avventura e lo faccio limitandomi a chiamarli per nome, cosa che ai delfini immagino piacerebbe: Emanuele, Angelo, Valentina, Chiara e Lorenzo…con me nel bel selfie di gruppo).
Comportamento acustico
Quel poco che si sa sulle stenelle – il tipo di delfino prevalente davanti alla costa del Plemmirio – è che producono fondamentalmente tre tipi di suoni: i click, di frequenza tra i 50 e i 150 kHz, che servono per l’ecolocalizzazione a scopo alimentare, cioè di caccia; i burst, sequenze prolungate di click, che noi umani percepiamo come una specie di miagolii; e i fischi, dalla frequenza più bassa, intorno ai 20 kHz, che servono loro per comunicare tra individui dello stesso nucleo o banco e/o tra un banco e l’altro, in tal caso anche a grande distanza. L’attività acustica delle stenelle pare essere più intensa all’imbrunire e di notte, in armonia con il loro comportamento alimentare prevalente.