«Ho raccolto nel tempo innumerevoli anni di uscite in mare, tutte esperienze che ancora oggi navigano nel mio sangue e anche nella mia pelle. Questa che ora vado a raccontarvi invece non si è fermata al sangue e alla pelle, è scesa fino alle ossa e oltre.» Ecco la testimonianza della protagonista Elena Mancini che ci descrive un incontro davvero poco raccomandabile
Di Elena Mancini
«La storia iniziò così: mi trovavo a passare un week end, ospite di amici, a Salerno, città già orbitante di preparativi per l’illuminazione natalizia, infatti se ben ricordo è soprannominata la città delle luci. Ve lo scrivo perché la cosa non la sapevo e mi aveva incuriosita. Quella mattina – era il 21 ottobre – il programma prevedeva di andare a tuffarsi, per un’uscita di apnea, a Cala degli Infreschi, Marina di Camerota.
Mi alzo di buon ora, faccio una bella e nutriente colazione a base di cereali e frutta. Chiamo il mio compagno di avventura e ci mettiamo in macchina per raggiungere il posto.
Arriviamo che saranno state le 12:30. Si lo so, era tardi, l’importante comunque era tuffarsi e andare in esplorazione di un posto che non avevo mai visto. La giornata era soleggiata, faceva discretamente caldo anche se, per l’abbondante pioggia dei giorni precedenti, la terra era tutta bagnata. Percorriamo un sentiero sterrato fin dove la macchina ce lo consentiva godendoci contemporaneamente un paesaggio mozzafiato.
Parcheggiamo, ci carichiamo addosso l’attrezzatura e continuiamo a piedi: circa 20 minuti di camminata tra terra, sassi e fango.
Il sentiero era chiuso e in ombra, immerso nella macchia mediterranea, il mare nemmeno lo riuscivo a vedere, dovrò aspettare di arrivare fino in fondo alla discesa: ma ero impaziente.
Superato l’ultimo ostacolo eccoci arrivati a Cala degli Infreschi: di fronte a me una baia dai colori azzurro, turchese e smeraldo, una affascinante insenatura ad arco delimitata dalla scogliera rocciosa che scende fino alla ghiaia o sabbia e il verde che poi incorniciava il tutto: un Paradiso! Poi ovviamente ho chiuso la bocca per non fare entrare le mosche.
“Via via”, dico al compagno “sbrighiamoci ed entriamo in acqua!”
Infilo un piede per usarlo come termometro: l’acqua era gelata anche se c’era il sole. Tiro fuori dalla sacca dell’attrezzatura la muta mimetica, giacca da 4.5 mm e un pantalone da 3 mm: direi perfetta. Il mio compagno aveva una muta senza maniche da 3 mm e già immaginavo che avrebbe resistito un’ora al massimo prima di avere freddo. Mi vestivo e pensavo che un’ora in acqua era poco, sarebbe bello rimanere fino al tramonto, uffa!…
Una sola boa (la mia), la go-pro in cintura, guanti, maschera, snorkel, pinne, tutto l’occorrente a posto e finalmente entriamo in acqu
La cala era a forma di U. Subito avviso il mio compagno che vorrei pinneggiare fino alla punta per vedere com’è il paesaggio e il fondale a quell’altezza.
Pinneggiavo e guardavo giù: alghe…alghe…alghe…ci allontaniamo dalla spiaggia sempre più, aumenta la profondità e il fondale inizia a essere meno visibile. Acqua tra il giallo il verde e il bianco e una visibilità sia verticale sia orizzontale che non arrivava a 18 m.
Vedo una bella spaccatura: l’unica. Mi tuffo. Arrivata a pochi metri dal fondo, mi sfila davanti una bella cernia per andare poi a nascondersi in uno spacco che scendeva di altri 3 o 4 m e poi dritta in tana: addio cernia (ma almeno l’avevo vista)…
Arrivati alla punta estrema, l’orizzonte si apre davanti a noi: si tratta di una costa che prosegue rocciosa. Fondale basso e roccia solo nei primi metri, poi di nuovo vegetazione. Al largo vediamo due “mede” (segnalamenti galleggianti soliti a indicare allineamenti o altro-ndr). Una a 1 miglio da noi, l’altra a 2 miglia.
E qui siamo al punto di svolta della giornata. Avete presente quei punti microscopici quasi impercettibili? Quelli in cui ciò che decidi di fare cambierà tutto della tua vita. Pinneggiare lungo costa e guardare il fondale, sarebbe stata una scelta tranquilla (un po’ come dire di andare in centro a passeggiare per negozi o mettere le scarpe da trekking e arrampicare una montagna: capite cosa intendo?). Il mio compagno, che in quel momento era un po’ lontano, mi chiama a gran voce e mi dice:
“Elenaaaaaaa, andiamo alla meda?”
Punto numero 1: io amo pinneggiare.
Punto numero 2: visto che il fondale a terra non era entusiasmante, speravo in una meda che indicasse una secca.
Punto numero 3: ho risposto “ok, va bene, andiamo!”
Inizia così una “gara” per chi arriva prima alla meda. Un miglio a nuoto pinneggiando veloci, sempre più veloci. 100 m prima della meda mi fermo di colpo e guardo giù. Guardo sempre più attentamente ma del fondale nessuna traccia. Non c’era la risalita! Nessuna secca! Niente. Niente di niente. Solo noi, il mare (torbido), la meda e … qualcos’altro.
Il mio compagno, vedendo che mi fermo, si ferma pure lui. Si trovava qualche metro più avanti.
A 20 m da noi, in direzione meda, 1,2 m sotto il pelo dell’acqua c’era lui, enorme. Sopra grigio e sotto bianco. Una immagine chiaramente confusa dall’acqua torbida e allo stesso tempo esplicitamente chiara: era proprio lui.
Lo avevamo di muso e stavamo pinneggiando verso di lui. Se non mi fermavo gli saremmo andati dritti contro.
Ho guardato con un’attenzione estrema e assoluta il colore della sua pelle. Questo grigio che finisce per diventare bianco con una caratterizzazione assoluta che appartiene solo a lui.
Il mio compagno in quel momento era di spalle e non lo aveva visto, probabilmente si stava riposando per la pinneggiata e pensava che io facessi lo stesso. Lo chiamo e cercando il più possibile di mantenere un tono di voce tranquillo, gli dico queste esatte parole:
“Senti, non c’è la risalita, è una meda che indica una probabile zona di parco, rientriamo!”
Lui: “non mi importa, voglio andare a toccare la meda. Ormai siamo quasi arrivati, la tocchiamo e torniamo indietro…”
Fa per ripartire. In quel momento avevo il cuore che mi rimbombava fino nelle caviglie, il sangue veniva pompato talmente forte che avevo paura mi uscisse dal cappuccio, lo fermo e con un tono di voce gelido gli indico in direzione del ‘grande bianco’ e dico:
“guarda cosa c’è là!”
Lui mette la testa sott’acqua, lo vede subito, lo guarda il tempo di 1 secondo, tira fuori testa e dice: “cos’è?”
Dentro di me penso che sia fortunato, l’inconsapevolezza ti rende più tranquillo e se non hai paura non sbagli… lo invidiavo un po’…
Rispondo sempre con un tono di voce glaciale dicendo: “secondo te cos’è? Dai, veloci, rientriamo!”
Sembrava fosse passata un’eternità ma da quando l’ho avvistato a ora saranno passati 45 secondi. Il tempo in certe situazioni non esiste e se esiste non ha la misura che siamo abituati a dargli. Prende la misura dell’infinito, la stessa che pensiamo possa avere la vita dopo la morte…
Adesso fermati un attimo, te che leggi, e ripercorri mentalmente un riassunto di quello che ho scritto: “sveglia, colazione, viaggio in auto, camminata nel fango, pinneggiata verso la meda: squalo!” Ma te, al mio posto, che avresti fatto? Perché io me lo sono domandata una miriade di volte cosa avrei fatto e mi sono data tantissime risposte: “gli avrei fatto una foto, lo avrei sicuramente toccato, un selfie? Certo, perché no…” Eccetera. Ma porca di una miseria, avevo la go-pro infilata in cintura, era pure accesa ma il tempo di prenderla, azionarla e fargli un video, non l’ho avuto. Mi sono preoccupata solo ed esclusivamente di riportare me e il mio compagno a riva. E ti giuro, caro lettore, che anche adesso seduta a questa scrivania da dove scrivo queste parole, se penso “cosa farei la prossima volta se lo incontrassi di nuovo?” mi do le stesse identiche risposte: “gli farei una foto, lo toccherei sicuramente, un selfie? Certo, perché no…ecc”.
Torniamo alla realtà: mi metto a pinneggiare perpendicolare alla costa verso il punto più vicino, dando le spalle alla terra e la faccia allo squalo (cioè pinneggiavo all’indietro).
Continuo a pinneggiare così per un bel po’ anche se lo squalo non lo vedo più. Il torbido dell’acqua se l’è ingoiato…e qui l’inquietudine raggiunge un altro culmine.
Quando inizio a rivedere il fondale (finalmente!), mi giro per pinneggiare meglio e aziono la mia massima velocità di pinneggiata. Il mio compagno che rimaneva indietro mi afferra ripetutamente dalla sagola della boa per farmi rallentare e io mi innervosisco ancora di più. Lo odiavo totalmente e deliberatamente. Probabilmente ha iniziato ad avere paura non tanto per quello che aveva visto ma per il mio comportamento insolito. Non avevo tempo, dovevo pinneggiare ma ogni volta che mi afferrava la sagola per frenarmi lo avrei volentieri affogato (scherzo!).
Arrivati a terra, lui si arrampica alle rocce con le pinne e tutto quanto e rimane lì attaccato un bel po’ come fosse un geco. Lo guardo avvolta da una miscela di sensazioni opposte. Stavo metabolizzando l’accaduto.
Mi metto a fare ancora qualche tuffo in 7/8 m di acqua. Cerco di rilassarmi in questo ambiente (il mare) per me da sempre familiare.
Pochi tuffi e rientriamo alla spiaggetta da dove eravamo partiti.
Il tempo di rimettere l’attrezzatura nelle sacche, vestirsi e tornare alla macchina.
Una passeggiata silenziosa, riflessiva.
Un viaggio verso il ritorno alla normalità di tutti i giorni.
Un venerdì 21 ottobre che ricorderò per sempre e anche oltre o quantomeno fino al prossimo… incontro!»