L’attualità delle conoscenze sul funzionamento e le reazioni di cuore e polmoni nella fisiopatologia dell’immersione umana in apnea.

A cura di Silvia Guenzani (MD, Centro di Medicina Iperbarica, Ospedale Niguarda, Milano; Master II livello in Medicina Subacquea e Iperbarica, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa).
Foto di Francesco Turano e Mario Genovesi

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Gli attuali record del mondo assoluti dell’immersione in apnea sono straordinari e sarebbero stati inimmaginabili nel secolo scorso. Le profondità raggiunte in assetto costante sono quote oltre i cento metri (– 128 metri con attrezzi, A. Molchanov nel 2013 e – 101 m senza attrezzi, W. Trubridge nel 2010) e oltre i duecento metri nella specialità NO LIMITS (– 214 m, H. Nitsch nel 2007).
Fino agli anni ’60 si pensava che il corpo umano non potesse superare certe quote, ma quando Maiorca e Mayol le infransero, medici e studiosi dell’epoca dovettero rivedere le proprie teorie riguardo ai limiti dell’immersione in apnea.
Inizialmente il rapporto fra “total lung capacity – TLC” (cioè la quantità totale di aria contenuta nei polmoni) e il “residual volume – RV” (ovvero il volume residuo, cioè la quantità di aria che resta nei polmoni al termine di una espirazione massimale) era considerato il valore massimo di profondità oltre cui un atleta non poteva spingersi. Questo avrebbe significato che un apneista con volumi polmonari nella media, ad esempio una TLC di 6 litri e un RV di 1,5 litri, non sarebbe potuto scendere oltre i 30 metri (TLC/VR = 6/1,5 = 4 ATA, 30 metri). Deve esserci quindi qualche fattore che si inserisce nell’equazione per modificarne il risultato!
Partiamo dal numeratore, ovvero la TLC. Gli apneisti utilizzano una serie di tecniche che consentano loro di aumentare l’aria contenuta nei polmoni. Da un lato sviluppano incredibili capacità di espandere la gabbia toracica con un’inspirazione massimale, esercitandosi con tecniche di yoga e respirazione, di modo da rendere più distensibili le strutture (dal diaframma, ai muscoli intercostali). Da un altro lato alcuni utilizzano la cosiddetta “carpa” o “respirazione glosso faringea” o, in inglese, “lung packing”. Questa è una procedura che permette loro, al termine di un’inspirazione massimale, di “impacchettare” ulteriore aria nei polmoni forzandola all’interno con un movimento della bocca simile a quello fatto dal pesce da cui la manovra prende il nome. Questa manovra è però ritenuta pericolosa per l’elevato rischio di barotrauma agli alveoli, ed è assolutamente sconsigliata ai neofiti della disciplina. Dal 2013 la FIPSAS ha proibito questa procedura in tutte le gare, eccetto quelle di Elite, e comunque la carpa viene sconsigliata anche agli atleti appartenenti a questa categoria.
Consideriamo invece il denominatore dell’equazione, ovvero il volume residuo. La diminuzione di quest’ultimo è il fattore maggiormente responsabile del raggiungimento di quote così elevate. Quando un corpo viene messo in acqua, grazie all’aumento della pressione atmosferica, si attiva il cosiddetto “blood shift”, anche conosciuto dagli apneisti come “emocompensazione”: il sangue presente alla periferia (soprattutto negli arti inferiori, e in minor misura anche negli arti superiori) viene spinto nel torace e va a sostituire il volume occupato dalla quota aerea, impedendo così l’implosione delle parti aeree del polmone a causa dell’aumento della pressione. Questo fenomeno avviene sempre ed è grazie ad esso che è possibile effettuare immersioni così profonde come quelle stabilite nei record mondiali. I medici della US Navy iniziarono gli studi riguardanti il blood shift alla fine degli anni ’60 sull’apneista Robert Croft, e da allora si è sempre cercato di quantificare la quota di sangue che entra nel torace. Un valore esatto non è mai stato definito, ma si possono fare dei calcoli matematici per stimare quale sia una quota minima di blood shift necessaria per arrivare ad una certa quota, anche se nella realtà è probabilmente maggiore.

Torniamo all’apneista del primo esempio, con una TLC di 6 litri e un RV di 1,5 litri e poniamo che scenda a – 70 metri (8 ATA).
TLC/VR = 8 ATA
Poniamo che con un’inspirazione massimale arrivi ad avere una TLC di 7,5 litri.
Considerando il volume residuo, questo dovrebbe essere non più di 0,94 litri (7,5/0,94 = 8). Se però il volume residuo di partenza era 1,5 litri, significa che 0,56 l di sangue (1,5-0,94 = 0,56) hanno sostituito 0,56 l di aria e quindi si può stimare che ci sia stato un blood shift di almeno 560 ml.
Ovviamente questo è solo un calcolo matematico, il blood shift è verosimilmente maggiore: nonostante l’apneista si sia fermato alla quota di – 70 metri (magari per problemi di compensazione), il suo organismo avrebbe avuto le “risorse“ per raggiungere una profondità maggiore (ed è quello che succede ai primatisti mondiali).
A questo punto non possiamo dimenticarci di parlare del diving reflex. Questo riflesso di immersione è comune nei mammiferi e si attiva con l’immersione della faccia in acqua, in particolare, nell’uomo, grazie all’attivazione dei recettori periorali del nervo trigemino. L’acqua fredda sollecita in maggior misura le risposte riflesse. Inizialmente si ha una bradicardia importante, seguita da una massiva vasocostrizione periferica e aumento della pressione arteriosa. Queste risposte sono finalizzate a garantire la perfusione e l’apporto di ossigeno agli organi nobili, come cervello e cuore. La vasocostrizione periferica dovuta al “diving reflex” contribuisce, insieme all’aumento della pressione atmosferica, all’entrata di sangue nel torace responsabile del blood shift di cui abbiamo parlato precedentemente.
Durante l’immersione in apnea avvengono anche importanti modificazioni della funzionalità cardiaca. Alcuni studi condotti dai ricercatori del CNR di Pisa (Marabotti C et al, 2008-2009) e resi possibili dall’invenzione di uno scafandro subacqueo per l’ecografo, hanno permesso di vedere come si modifichi la cinetica cardiaca già a quote ridotte (– 3 e – 10 metri). Il cuore si comporta come se fosse “ristretto e costretto”, a causa di una compressione dall’esterno per diminuzione del volume della gabbia toracica e aumento del volume di sangue nei polmoni. A tutto ciò si somma una riduzione del ritorno venoso al cuore. Questi fattori causano una diminuzione della gittata cardiaca, ovvero della quota di sangue che il cuore è in grado di pompare all’organismo con ogni contrazione. E’ stato dimostrato che la disfunzione cardiaca risulta essere reversibile se, durante l’apnea, si respira da una bombola sott’acqua, riespandendo il torace e quindi togliendo al cuore la compressione esterna. Ovviamente le attività SCUBA e apnea non devono essere svolte contemporaneamente come è stato fatto in questo studio, che era invece volto solo a scopi scientifici.

Dopo aver accennato brevemente alla fisiologia umana nell’immersione in apnea, vorrei concludere parlando dei sintomi a carico dell’apparato respiratorio che si possono presentare al termine di un’immersione in apnea. Da uno studio osservazionale retrospettivo pubblicato da Cialoni et al. nel 2012 è emerso che circa il 26% degli apneisti intervistati avessero, almeno una volta nella propria carriera, al termine di un tuffo in apnea, sofferto di uno fra questi sintomi: tosse, senso di costrizione toracica, emottisi, dispnea o addirittura franco edema polmonare.
Durante la discesa il polmone può essere sottoposto ad un barotrauma, a cui può conseguire il collasso di alcune zone polmonari, la rottura della membrana alveolo capillare (con conseguente emottisi) e lo stravaso di fluidi nell’interstizio, ovvero lo spazio che circonda alveoli e capillari. Per questo è possibile assistere ad episodi di dispnea, emottisi, tosse e senso di oppressione toracica (il cosiddetto “lung squeeze”) al termine di un tuffo in apnea.
In più studi in letteratura è riportato che al termine di immersioni in apnea (sia assetto costante che apnea dinamica in piscina) vi sia un incremento dell’acqua extravascolare polmonare, e questo è testimoniato dalla presenza delle cosiddette “comete” all’ecografia polmonare.
Spesso gli apneisti sono asintomatici, nonostante con l’ecografia sia visibile un discreto numero di comete. La presenza di questa acqua nell’interstizio rappresenta lo stravaso di fluidi dai capillari polmonari nello spazio circostante. In casi estremi si arriva fino alla diffusione del fluido in eccesso negli alveoli polmonari, con sviluppo di edema.
Durante un tuffo in profondità si assiste all’incremento della pressione nei capillari polmonari per il già descritto fenomeno del blood shift.
Questo fenomeno è contrastato dall’aumento della pressione esterna, così che teoricamente la filtrazione di fluidi dai capillari nell’interstizio non aumenti (o aumenti molto poco).
Tuttavia la filtrazione del sangue può crescere, causando stravaso di acqua nell’interstizio polmonare, a causa di quei fenomeni che rendono più negativa la pressione intratoracica attorno ai capillari, causando un effetto “ventosa”. Stiamo parlando fondamentalmente delle contrazioni diaframmatiche e delle manovre compensatorie effettuate per richiamare aria dal torace. In questi casi la filtrazione capillare eccede la capacità di riassorbimento e l’acqua extravascolare polmonare aumenta, dando luogo al fenomeno delle comete.
Questo spiega perché gli episodi di edema polmonare avvengano spesso in seguito a tuffi molto fondi, in cui sono estremizzati sia l’impegno compensatorio che il blood shift.
Anche l’ecografia dei polmoni effettuata in seguito ad apnea dinamica in piscina può far rilevare comete, e lo stravaso di acqua è sostanzialmente dovuto alle contrazioni diaframmatiche che gli atleti tendono a sopportare fino al limite.
Durante l’immersione in apnea avvengono molti altri cambiamenti fisiologici a carico dell’organismo, ma in questo breve articolo ho voluto solo accennare a ciò che succede al sistema cardio-respiratorio. Spero di poter presto continuare il racconto.

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