Frog fish, solitudine e tiramisù: riflessioni su un viaggio nel mare indonesiano.
Di Jenny Gioffrè. Foto Francesco Turano
Quando si dice “parole chiave” non si pensa quanti altri concetti ci stiano dentro quell’argomento e quanto la scelta dei termini non sia sempre pertinente e rappresentativa. Nel cercare le mie parole chiave sull’ultimo viaggio, queste si sono imposte e, anche se non sono pienamente rappresentative in senso obiettivo, lo sono per la mia psiche.
Viaggio lungo, era da un po’ che non mi spostavo tanto: traghetto, treno, aereo, aereo, auto e barca. Mi ricordo che sto andando “in un posto sperduto”, ma anche dove vivo ad isolamento non scherza!
Spiaggia bianca, palme e un pontile è tutto ciò che si vede arrivando via mare. Ma vuoi mettere il mare? Appena sotto la superficie una distesa bellissima e variegata di coralli e spugne, in effetti siamo arrivati al Coral Eye! Entro 5 minuti siamo in acqua, e già sento che devo godermi questo mare il più possibile. Non starò a raccontarvi le bellissime immersioni, le creature curiose ed esotiche incontrate, le distese di coralli che durante la bassa marea prendono la tintarella, i grovigli delle mangrovie, la bellissima sensazione di passeggiare sul fondale marino durante la bassa marea, tra stelle marine ritardatarie e miriadi di conchiglie e perioftalmi. “Frog fish” appartiene a questo: che pesce buffo e strano! Il primo visto è giallo e arancio, piccolino, sembra quasi un camaleonte con quei movimenti lenti. Lotto con il desiderio di prenderlo in mano, ma il mio compagno di viaggio ha fatto un ottimo terrorismo prima dell’immersione: “non toccare niente, ci sono tante cose urticanti e velenose”. Me lo ha ripetuto così tanto, come faccio io con i miei pazienti, che alla fine mi ha condizionato e per tutto il viaggio ho frenato la mia curiosità tattile. Il secondo Frog fish però è stato strepitoso: mi avvicino bene senza capire perché Francesco fosse così attratto da quella macchia nera e il mio sguardo s’illumina! È un pesce strano, lento, simile ad un pupazzo di velluto venuto male. Sembra un pesce con un brutto carattere, imbronciato e petulante, ma è la creatura a cui penso di più da quando sono rientrata e di cui parlo più spesso. Anche perché poi ho capito di averlo incontrato in immersioni precedenti senza riconoscerlo, mi sa che è necessario un corso di biologia marina indigena per il prossimo viaggio!
Seconda parola, anzi, le altre due, solitudine e tiramisù, sono prettamente legate al resort. La mia idea di viaggio era di andare fuori dal mondo, in un posto dove la mia vita carica delle tante storie tristi dei pazienti, di tanta velocità e stress, di stimoli bellissimi ma continui, potesse trovar pace. Dal secondo giorno internet non va, e io sono quasi sollevata da ciò. Il resort ha ripreso la stagione adesso, gli ospiti sono pochi e le attività ancora in progress. In sintesi: spiaggia bianca, amaca, mare; incontri qualcuno giusto ai pasti, e fuori dagli orari cucina se volessi una birra puoi morire! Un posto in cui c’è solitudine, ma la stessa viene stimolata; un posto in cui anche quando sei fuori dall’acqua, scendi nel profondo.
Proprietari del resort sono due ragazzi italiani, Clara di Salerno e Marco di Milano, caratterizzati dalla stranezza (10 anni vissuti a Bangka, qualcosa mi dice…), dall’essere idealisti rompic… come tanti di noi appassionati del mondo (niente aria condizionata, non si toccano i coralli, neanche spiaggiati, non si mangia pesce di reef) e con una bellissima passione per il mare che li ha portati a istituire delle borse di studio per giovani studenti di biologia marina. In piena stagione al resort si fanno lezioni di biologia marina la sera, si possono seguire le ricerche degli studenti, accedere al laboratorio e curiosare con loro. Beh, sono di quelle persone che è bello incontrare! Un altro turismo è possibile. Anche i pasti rispecchiano questa atmosfera, ad una certa ora senti urlare “Prontooooo” con un accento strano. Si mangia tutti insieme, con tanto peperoncino, con buona cucina indonesiana e con sorprese che non ti aspetti: mai avrei immaginato di mangiare il tiramisù a Bangka, ed è pure buono!
Il ritorno, con le varie attese, è ancora più lungo. Il viaggio è stato duplice, uno spaziale e uno mentale. Al ritorno so che qualcosa è cambiato, una consapevolezza diversa e il beneficio di essere stata ferma con me stessa, che è una cosa che diamo per scontato di saper fare ma non lo è affatto. A Bangka viene favorito il guardarsi dentro; in alcuni momenti ti senti come quel bellissimo squalo nutrice visto in due immersioni, sonnecchiante e per i fatti suoi. L’altra forte consapevolezza è quanto sia bello e variegato il nostro pianeta. La sensazione è di aver osservato qualcosa che non è detto ci sarà ancora nel futuro, visto la scarsa cura che l’uomo ha dei suoi tesori. Ogni viaggio ci rende uomini e donne migliori.
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Angelo
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