Facciamo il punto sulla disastrosa moria che affligge dal 2016 la Pinna nobilis (= nacchera) e che l’ha decimata in ogni angolo del Mediterraneo. È scomparsa del tutto? I casi di ricrescita segnalati in molte zone sono effettivamente tali o esistono altre possibilità? E sono più rassicuranti o preoccupanti?
A cura della Redazione. Foto n. 1 apertura, 2 e 3 di Marco Mori. Foto da 4 a 7 di Emanuele Vitale.
È stato a memoria d’essere umano un organismo marino – il più grande mollusco bivalve del Mediterraneo – simbolico di buona sorte; con il trattamento del “bisso”, risultato dalle fibre che come radici tenevano avvinto al fondale e saldamente infisso il suo apice appuntito, si tessevano le vesti dei Re; le sue due pale abbinate ne costituivano la forma complessiva svettante dal fondale, rassomigliante a una enorme cozza – anche 1 metro e più di lunghezza, esclusa la parte infissa nel substrato! – protesa verso l’alto. Una maestosa, austera sentinella. La cui sola vista è stata ragione di meraviglia e gioia per generazioni di subacquei. Forse la più iconica tra le creature delle profondità. Ma perché ne stiamo parlando al passato? Semplice: perché, se ci chiediamo che fine abbia fatto, non troviamo a oggi una risposta certa! Che è successo per doverla pensare così? Vediamo.
Il maggior imputato per la moria di nacchere (Pinna nobilis) che da circa la seconda metà del 2016 e a partire dalla Spagna (isole Baleari), sta falcidiando e forse facendo sparire per sempre tutte le popolazioni di nacchere del Mediterraneo si chiama – o meglio l’hanno testé battezzato, dato che prima non c’era o non si conosceva e solo in seguito a questa vicenda è stato isolato e identificato – Haplosporidium pinnae.
Si tratta di un protozoo – dunque né batterio né virus, ma piuttosto un parassita – con un’alta affinità per la Pinna nobilis e una letalità (purtroppo per lei) del 100%. Significa che quando contagia un banco di nacchere, le fa fuori tutte. L’AMP di Punta Campanella, per esempio, nel 2021 ha verificato che le 70 nacchere censite una per una appena l’anno prima nel suo comprensorio erano tutte morte.
Il parassita, appartenente al phylum dei Cercozoa, ha un ciclo vitale piuttosto complesso, ma pare che danneggi il mollusco proliferando nella sua ghiandola digestiva, riducendone progressivamente l’alimentazione, alterandone l’assorbimento dei nutrienti, fino a ucciderlo.
Dev’essere una morte piuttosto rapida, se è vero com’è vero che numerose nacchere sono state trovate ancora perfettamente infisse sulla loro base e con gli epibionti sopra il guscio ancora vivi ma ormai prive del mollusco all’interno: due valve semi-dischiuse senza nessuno in casa! La caduta dei due grandi gusci avviene dopo, in seguito all’indebolimento dell’impianto nel substrato del fondale.
Non si sa se ci sia – e quale sia – un influsso antropico diretto sul fenomeno, né quale incidenza possano esercitarvi il surriscaldamento e la “meridionalizzazione” del nostro mare, con un termoclino che ormai fatica anche solo a manifestarsi (la temperatura della colonna d’acqua anche in profondità scende solo di poco – troppo poco! – rispetto alla superficie e il classico scalino o salto termico non si riscontra quasi più, neppure a inizio stagione…)
Nel nostro Paese la moria ha iniziato a farsi conoscere in Sicilia, Puglia, Campania e Sardegna, nella cui costa occidentale (zona del Sinis) è stata subito altissima.
La situazione, per la sua gravità, è da allora monitorata da task forces dell’IAMC – CNR l’Istituto per l’ambiente marino costiero del Consiglio nazionale delle ricerche; ma non ha mostrato finora periodi di remissione. Neppure in seguito a strategie di traslocazione precoce di individui ancora sani in zone diverse e ancora sicure, secondo regimi di protezione internazionale: sembrano aver solo rimandato il problema, che si è poi ripresentato con analoghi tassi di mortalità. Insomma tutto finora ha confermato inesorabilmente le caratteristiche del fenomeno in base alle quali era stato lanciato fin dall’inizio l’allarme di “evento di mortalità di massa” (IRSA – CNR Italiano).
Perfino le popolazioni dell’Alto Adriatico, nel golfo di Trieste e in Croazia, che avevano lasciato sperare di potersi essere salvate fino a quasi tutto il 2020, sebbene con ritardo e forse addirittura per ultime rispetto alle altre sono state raggiunte anch’esse dal fenomeno e altrettanto devastate nel corso del 2021.
Interessate anche le varie aree della Francia, della Turchia e della Tunisia – sebbene da questi due ultimi paesi le informazioni siano frammentarie – fino alle porte del Mar Nero.
L’IUCN Unione Mondiale per la Conservazione della Natura ha fin dall’inizio avvertito i Paesi del bacino del Mediterraneo della gravità della “situazione d’emergenza” pandemica riguardante la Pinna nobilis, inserendo la specie nel novero di quelle definite “critically endangered”, praticamente in pericolo d’estinzione.
Da ciò sono iniziati – e ve ne sono tutt’ora in corso – diversi studi per proteggere la specie, come il monitoraggio degli individui sopravvissuti effettuato dai ricercatori spagnoli IEO nel Parque Nacional Marítimo Terrestre del Archipiélago de Cabrera.
Da noi il magazine scientifico “Radar” riporta nel giugno del 2021 una particolare attenzione in tal senso dedicata dall’ISMAR del CNR ai molti esemplari di nobilis presenti sulle “Tegnue” della laguna di Venezia, nell’auspicio che queste particolari conformazioni del fondale potessero costituire luoghi “santuario” per la specie, manifestando caratteristiche ambientali molto diverse da quelle costiere dove la strage s’era già consumata.
La speranza è stata – ed è – quella di rinvenire esemplari che per qualsiasi motivo si fossero mostrati refrattari all’infezione o ai suoi effetti dannosi e capire quali fattori avessero determinato una simile resistenza, per vedere se fossero in qualche modo riproducibili.
E in effetti oggi la notizia è che si hanno sempre più segnalazioni di “ricrescite” in giro (piccoli esemplari in tutto simili a giovani nacchere), anche se potrebbe essere un’altra la spiegazione, in quanto questi “giovani” sono rassomiglianti e talvolta confondibili alla sola vista anche con una specie imparentata con Pinna nobilis ma diversa, la Pinna rudis.
C’è infine una ulteriore possibilità che è quella di una ibridizzazione, cioè che i piccoli “nuovi” esemplari avvistati ormai un po’ ovunque – sebbene le nostre fonti assicurino che per quelli visti a Taranto (Mar Piccolo) e alle Tremiti (San Nicola) si tratti proprio di nobilis puri – siano in realtà non giovani di Pinna nobilis bensì ibridi della nobilis con la rudis: e in effetti non solo quello della ibridizzazione è un fenomeno noto in natura e più frequente a verificarsi di quanto si possa pensare ma soprattutto in questo caso è già stato dimostrato in un certo numero di campionamenti su cui sono state svolte indagini del corredo genetico.
Lo studio «Natural hybridization between pen shell species: Pinna rudis and the critically endangered Pinna nobilis may explain parasite resistance in P. nobilis», pubblicato su “Molecular Biology Reports” da Maite Vázquez-Luis, Elisabet Nebot-Colomer e Salud Deudero del Centro Oceanográfico de Baleares dell’Instituto Español de Oceanografía (IEO), e da Serge Planes ed Emilie Boissin del Centre de Recherches Insulaires et Observatoire de l’Environnement (CRIOBE) nel 2021 ha rivelato per primo l’ibridazione tra la Pinna nobilis, la nacchera, e la nacra de roca (Pinna rudis), appartenente allo stesso genere – scambiabile per una giovane Pinna nobilis – e resistente al parassita “killer” della nacchera.
Secondo la ricerca spagnola di cui sopra «L’analisi morfologica e genetica di questi individui ha permesso di identificare per la prima volta l’ibridazione di P. nobilis e P. rudis, cosa che potrebbe aiutare a comprendere l’immunità di alcuni individui al patogeno, poiché la nacra de roca è resistente al parassita e potrebbero esserlo anche gli ibridi».
E lo studio chiosa concludendo che «tutti gli esemplari sopravvissuti che fino a ora credevamo fossero Pinna nobilis dovranno superare un test di identità genetica, perché è possibile che alcuni di loro siano esemplari ibridi»
Intanto, nel maggio 2022, l’IRSA – CNR scrive che «da inizio 2022 sono cominciate le attività di ricerca mirate all’individuazione di esemplari di P. nobilis ancora vivi lungo le coste joniche della provincia di Taranto; tali attività rientrano nell’ambito del progetto “M.I.A. Rete Natura2000 (Monitoraggi Innovativi Ambientali RETENATURA 2000)” finanziato dalla Regione Puglia che andrà avanti fino a dicembre 2023.»
Insomma, cercando di riassumere questo autentico thriller naturalistico subacqueo, forse la vera e propria Pinna nobilis originaria potrebbe essersi cacciata in un recesso evolutivo, una specie di binario morto darwiniano, in cui un parassita ad alta letalità contro il quale era indifesa potrebbe averla sterminata così facilmente e rapidamente da non lasciare sopravvissuti (speriamo non sia così, dopotutto anche nelle peggiori infezioni contagiose alcuni sopravvissuti se la cavano); la specie potrebbe essere stata soppiantata da un’altra – la rudis – in precedenza non abbastanza avvantaggiata e ora invece in grado di prendere il sopravvento nelle opportunità di sviluppo in quanto immune al parassita. Oppure, alla scomparsa della specie Pinna nobilis potrebbe corrispondere l’affermarsi di una specie nuova, emersa con ibridi nobilis-rudis parimenti refrattari al parassita, affacciatasi in natura per ibridizzazione appunto, forse addirittura prima della moria di nobilis: un modo in fondo per “mettere al sicuro” e perpetuare almeno una parte dell’impronta genetica di specie della nobilis originale.
Quest’ultima eventualità, qualora si dimostrasse diffusa, imporrà con ogni probabilità di considerare ibrido ogni “nuovo” esemplare rinvenuto, fino a prova contraria, per stabilire la quale diverrà indispensabile condurre ogni volta un’indagine sul corredo genetico del singolo individuo. Un bel dilemma procedurale, per la biologia marina! Che tuttavia ha il suo passo e i suoi tempi per arrivare a conclusioni di senso compiuto, senza le quali tutto deve ritenersi confinato al campo delle supposizioni, che esclude il ricorso prematuro a termini così definitivi come “estinzione”.
Insomma, pur se c’è grande apprensione, in un mix di malinconia e speranza da parte di tutti gli amanti del Mare Nostrum, le pagine terminali della sceneggiatura di questo thriller sommerso richiedono maggiori conoscenze e comunque devono ancora essere scritte.
Dopotutto, “non è finita finché non è finita!”
NOTA – Nell’immagine 1 d’apertura del servizio, autore il fotosub Marco Mori nell’agosto 2020 in zona Capo Calvo all’Isola d’Elba, le Pinna nobilis riprese sono di quelle autentiche e sembrano ancora in salute…invece non c’è più nessuno dentro. Delle austere sentinelle sono rimaste nient’altro che queste armature vuote.
Nell’immagine 8: metodo eDNA in acqua d’incubazione per una rapida identificazione molecolare non distruttiva di giovani esemplari di Pinna nobilis e Pinna rudis. L’esemplare viene tenuto un certo tempo in una vasca d’incubazione, poi viene tolto e il suo DNA cercato nell’acqua di risulta ed estratto per l’indagine molecolare, senza alcuna invasività verso l’animale. (By www.methods-x.com )
Nell’immagine 9: comparazione tra esemplari di Pinna nobilis e Pinna rudis: il confronto su sola osservazione morfologica esterna si fa arduo tra esemplari di rudis e individui giovani di nobilis che possono rivelarsi indistinguibili senza un’indagine genetica molecolare (by http://imedea.uib-csic.es/ ), così come per eventuali ibridi.