La cosiddetta “narcosi” come non ve la spiegano in didattica, come potete cascarci anche voi e quanto può essere importante il vostro buddy
A cura di Isabelle Mainetti. Foto di Pino Piccolo
Insospettabile, infida e a volte piacevole la narcosi da azoto ci accompagna nelle nostre immersioni. Ci viene presentata dai primi corsi, se ne accenna in molti discorsi, ma pare che negli atteggiamenti comuni il problema riguardi solo gli altri. Quando ne parli, l’argomento risulta quasi tabù, nessuno che la percepisce, nessuno che ne soffre, tutti super resistenti, una cosa da femminucce insomma. Eppure gli incidenti ci sono e non sono pochi. Il subacqueo tipico non racconta, nasconde e nega, ma questo fino a che gli è andata bene. Dite quello che volete ma le immersioni ad aria in profondità sono come dei buoni bicchierini di Whisky, a volte ce ne vogliono tanti, a volte ne basta uno per essere ubriachi. Sicuramente un buon allenamento ci rende più resistenti, ma non tutti i giorni siamo in forma fisica e psicologica perfetta. Ho conosciuto gente che ne negava l’esistenza, altri che dicevano di gestirla senza problemi, chi imbrogliava sulla miscela dicendo di avere trimix ma poi in acqua era evidente il contrario, chi si è trovato a pancia in su sul fondo come una tartaruga senza accorgersene, chi anziché andare in una direzione ne prendeva un’altra, chi non rispondeva ai segnali e aveva gli occhi a palla, chi per una realtà distorta ha quasi fatto a botte in acqua e poche settimane fa, in una immersione su un relitto, un ragazzo ha rischiato di rimanere per sempre in fondo al mare dopo essersi completamente spento a 78 m. Non possiamo sottovalutarla. L’azoto, contenuto per il 78% nell’aria che respiriamo, con l’aumentare della profondità diventa sempre più narcotico alterando la nostra psiche e i nostri movimenti. Se siete attenti alle vostre percezioni, ricorderete che vi sarà sicuramente capitato in passato di sentire almeno una volta il rumore intorno a voi ovattato, o di notare un rallentamento dei movimenti dei pesci, di sentirvi inebriati e eccessivamente sereni, di muovervi come se steste danzando o di faticare a mettere a fuoco i nomi scritti sulle bombole degli altri sub. Scendere sempre con un compagno affidabile vi può salvare la vita. Ricordando tutto ciò, ho pensato che forse raccontandomi in prima persona, con i miei errori, le mie debolezze o qualsiasi cosa vogliate pensare, possa essere utile e senza vergognarmi ve ne racconto una delle mie.
Qualche anno fa, abituata a fare parecchie immersioni a settimana di cui almeno due oltre i 50 m ad aria, mi sentivo tranquilla, la narcosi la conoscevo, la anticipavo e non mi immergevo mai sola ecc. Un giorno però non fui io ad avere il sopravvento. Reduce da un susseguirsi di serate con gli amici, corse sul lavoro e tornata da una escursione al mare in una sola giornata al sabato, la domenica volli comunque unirmi al gruppo su una parete del Garda che strapiomba fino alla profondità massima di oltre 300 m. Sentendomi non completamente attiva avvisai che avrei fatto una immersione ricreativa. Eravamo in tanti quel giorno e nel calarmi in acqua percepivo confusione e un po’ di irritabilità. Il caos mi infastidiva. Affiancai un membro del gruppo mentre quello che doveva essere il mio buddy si era un attimo fermato e cominciammo la navigazione con profondità max 40 m. Nessuno mi seguiva, mi voltavo ma rimanevano tutti fermi ad accrescere il caos, io ero alterata e un po’ rabbiosa e proseguivo pinneggiando alla profondità decisa affiancando la parete sulla mia sinistra. Niente poteva sembrare più vero! I miei pensieri erano veri, le mie emozioni lo erano e ciò che vedevo era vero. Ad un certo momento il mio buddy che finalmente mi aveva raggiunto si avvicina e mi dà una battuta alla spalla inveendomi contro. Immaginatevi come potevo reagire? L’ho contraccambiato mandandolo a quel paese, ma fu lì che mi SVEGLIAI: ero a 70 m di profondità e sarei scesa ancora! Stavo sognando ad occhi aperti, vivevo in una realtà parallela, mi trovavo in un limbo iniziato solamente a 40 m, avevo sognato per 30 m senza accorgermene. Chi mi ha visto afferma che improvvisamente ho iniziato a pinneggiare verso il basso, sembrando lucida, ma così non era. Avevo sottovalutato una serie di fattori, la stanchezza fisica e mentale, l’acqua fredda del lago e la poca visibilità. Non abbiate paura di confrontarvi e neppure di sentirvi da meno se percepite la narcosi, siamo subacquei non robocop. Buone bolle a tutti!
LA PAROLA A UN ESPERTO
Ho raccontato di questo articolo e del mio episodio a un amico istruttore che nel tempo e con l’esperienza s’è “specializzato” sulla narcosi: sebbene lui, non amando la pubblicità, prediliga l’anonimato, il suo mi pare un interessante contributo e ve lo propongo.
«Mah, Isy, nel tuo racconto dici già tutto: è un’ottima testimonianza di ciò che può avvenire in questi casi. Forse giova soltanto puntualizzare ancor di più qualche concetto di fisiopatologia di questo incidente – che mi ha sempre intrigato molto – e le conseguenti contromisure che vanno prese per prevenirlo. Cose che trovo spesso non sufficientemente affrontate dalle varie didattiche. La cosiddetta “narcosi”, per gli americani progressiva “come bere un Martini Dry a digiuno ogni 15 m di discesa” usando aria… (da azoto, ok, ma potrebbe essere anche da altro inerte a quote diverse e riconosce come co-fattori anche gli altri gas, specie i metabolici O2 e CO2… non mi dilungo ma va tenuto presente per il fattore profondità in base a ciò che si respira…), è in realtà una “Sindrone Neuropsichica da Alta Pressione (sigla SNAP)” perché comporta – oltre a tutti gli altri sintomi descritti e talvolta prima e più di essi – un’alterazione della capacità critica, di giudizio, cioè una perdita della facoltà di renderti conto se ciò che stai facendo è giusto o sbagliato! Ecco perché, per esempio, è errato pensare di concepire la prevenzione solo sul tenere la mente impegnata in piccoli calcoli, o nel ricordare numeri noti a memoria, ecc: chi ti dice che tu non li stia sbagliando, se è proprio questa la capacità che perdi di più? E se ti aspetti di avvertire se ci stai mettendo troppo a farli, quei calcoli, sei sicura di saper ancora stimare se i secondi che passano siano pochi o troppi? Ecco perché il buddy ti può salvare: è più probabile accorgersi dell’anomalia nel comportamento dell’altro che stimare correttamente il proprio! Detto questo non puoi nemmeno pretendere che il buddy faccia miracoli. A me una volta è successo a 35 m in aria: mi dimenticavo istantaneamente della lettura strumenti appena fatta! Eppure prima di valutare “anomalo” ciò che mi stava capitando ho rifatto la lettura svariate volte! Il punto è proprio questo: non mi è sembrato subito strano doverla ripetere, c’è voluto che succedesse non so quante volte. Capisci? E intanto scendevo, fortunatamente lento, ma scendevo. Delle fasi iniziali di una cosa del genere è probabile che non si renda conto neppure il miglior compagno del mondo, finché non ti metti a scendere di brutto… (Quella volta, recuperata consapevolezza, fui io a chiedere al collega di risalire qualche metro…poi mi disse che aveva creduto stessi verificando qualche funzionamento degli strumenti per la mia insistenza a riguardarli).
Perciò bisogna essere più consapevoli di qual è questo modo che ha questo incidente di essere così subdolo, insidioso. Se conti solo sul fatto di “avvertirne i sintomi”, qualsiasi essi siano, commetti il più grave degli errori, perché è proprio la capacità di avvertire e interpretare i sintomi che può essere la più compromessa, o la prima ad alterarsi.
Altro esempio è proprio quello delle “allucinazioni uditive”: è vero che capitano a tanti ma ciò che conta è che a pochi di questi pare “strano” nel momento in cui accade di sentire rumori o suoni inesistenti. Ho in mente di uno che raccontò di aver udito le campane ma di essersi sentito certo che si trattasse di qualcuno del gruppo che batteva la bombola per segnalare qualcosa: insomma si era convinto di un’auto-spiegazione piuttosto che mettersi in allarme per la stranezza del rumore!
Oh, intendiamoci, dal tuo racconto tutto questo si evince e gente che conosce a fondo il problema oggi ce n’è molta. Ma altrettanti lo sottovalutano, o vivono inconsciamente la presunzione di esserne immuni, insomma che non possa toccare proprio a loro. Ebbene queste persone possono equivocare, ritenendo che “basta pensarci e uno si renderà conto meglio dei sintomi nel momento in cui dovessero capitare”. Mentre purtroppo la realtà è che potrebbero non accorgersene affatto, per quanto se li aspettino!
È per questo motivo di fondo che l’eventualità di questo incidente va concepita più come prevenzione che come soluzione: andare in acqua ben riposati e idratati, non aver abusato di alcolici la sera prima, non avere farmaci in corpo né aver assunto subito prima alcuna sostanza neurotropa (ad azione sul sistema nervoso centrale, ricordandosi che anche il tè e il caffè lo sono…), avere il buddy sempre a vista diretta e il più vicino possibile (la limpidezza dell’acqua porta ad allontanarsi l’uno dall’altro, ritardando l’eventuale intervento reciproco…).
E un’ultima cosa la riservo a istruttori, guide, accompagnatori ecc: non applicate sempre e soltanto la segnalazione gestuale ufficialmente prevista, non affidatevi solamente a quella! Talvolta la richiesta di risposta al segnale di OK induce identica risposta in via troppo automatica, condizionata dall’abitudine, dalle esercitazioni convenzionali, dall’impostazione didattica ecc, mentre non è detto che la situazione sia davvero OK in quel momento per chi pure ha risposto così. Guardate invece negli occhi, dentro la maschera, i vostri allievi, o comunque coloro che accompagnate. Anche facendo ricorso a “segnali” non convenzionali ma che proprio per questo abbiano la capacità di stimolare una risposta non stereotipata: avvicinarsi al viso dell’altro e fargli improvvisamente l’occhiolino, per esempio, una cosa che non si aspetta o si aspetta di meno, induce una reazione sicuramente più verace e schietta, oltre a fungere da stimolo all’attenzione, qualora fosse già un po’ compromessa. E’ uno dei trucchi di prevenzione più efficaci per chi accompagna e ha il compito di vigilare sugli altri, sul loro stato mentale del momento, sul loro livello di lucidità; di certo non ben standardizzabile in didattica ma non per questo meno valido per il necessario bagaglio della propria professionalità.»
2 Comments
Monica Ledda
Buongiorno Isabelle, trovo sempre interessanti i tuoi articoli e in questo caso è stato toccato un tema non sempre approfondito a dovere per cui inizio col farti i complimenti.
Dissimulazione del proprio stato narcotico o non consapevolezza? Nel tuo articolo parli di entrambi e porti ad esempio un tuo episodio in cui, per una serie di fattori in cui ognuno di noi può incappare, la narcosi ha preso il sopravvento.
Personalmente ho iniziato a fare i conti “seriamente” con la narcosi quando ho iniziato a fare immersioni al lago, senza necessariamente parlare di quote particolarmente fonde.
Acqua fredda, buia, scarsa visibilità sono fattori che incidono parecchio sulla risposta del nostro organismo alla narcosi. Poi col tempo e l’allenamento tutto diventa “gestibile”, “normale” e la soglia della nostra tollerabilità aumenta… è forse questo uno dei motivi che ci fa sottovalutare il rischio di quanto potrebbe accadere? Riflettere su tutte le volte in cui ci siamo imbattuti e scontrati con la narcosi e chiedersi seriamente quale sia stata la nostra reazione e se saremmo stati in grado di risolvere un eventuale problema che in quel momento poteva presentarsi, è un ottimo spunto di riflessione al quale solo onestamente ognuno di noi può rispondere.
Grazie dell’articolo, Monica
Isabelle
Grazie di cuore Monica, ma soprattutto grazie per il tuo commento e la tua importante opinione.
Buone immersioni!