Dedicato a chi equivoca – a bella posta – il senso dello “spirito di Ulisse”. A chi vuol per forza associare al penoso evento del Titan quell’anelito alla scoperta che invece non può essergli neanche paragonato. E a chi piuttosto non dimentica che il vero esploratore si arma di cautele e consapevolezze per illuminarsi il percorso e tornare a raccontarlo. L’esatta differenza tra un atto di coraggio e l’azzardo fine a sé stesso.
A cura della Redazione
Avremmo evitato volentieri di scrivere alcunché sull’assurda vicenda del Titan, dato che di titanico ha già avuto la tragicità e la vergogna dell’epilogo, così evidenti di fronte a tutto il resto del mondo. Soprattutto adesso che, a distanza di due mesi, le informazioni sono arrivate incessanti e in quantità; tutte inequivocabili conferme sull’accaduto (se anche ce ne fosse stato bisogno) già prima delle analisi più approfondite sui resti ritrovati.
Poi però capita di leggere d’ogni bene – anzi, d’ogni sconcezza – sui social e, quando certe osservazioni vengono da personaggi peraltro stimabili ma pronti a fingere d’ignorare i meccanismi della visibilità, non si può più tacere. Non ci si può arrendere alla disinformazione imperante. Neanche in nome del celeberrimo “pietoso velo” che torna così conveniente a tutti stendere sulla scena, in casi del genere.
Ci riferiamo in modo particolare alla sbandierata opinione di un certo psichiatra televisivo – noto a dir il vero per posizioni in campo educativo anche condivisibili – il quale sui social si è lanciato in una invettiva contro coloro che denigrano la missione dei 5 passeggeri periti nell’implosione del suddetto batiscafo, sostenendo in buona sostanza che simili denigratori, nel prendere di mira quella scellerata missione, soffocherebbero lo spirito avventuroso simboleggiato da Ulisse, il senso del desiderio di scoperta che fa progredire l’uomo, la sfida all’ignoto che testimonia l’ardimento umano nel gettare il cuore al di là di qualsiasi ostacolo pur di spingersi oltre. Ecco, caro professore: è qui che non ci siamo proprio! Ed è qui che non vogliamo più seguirla in questa sua goffa messinscena mediatica travestita da (finta) controtendenza in modo che sembri degna di attenzione.
Questo voler nobilitare a tutti i costi – come per riabilitarli – gli intenti dei 5 a bordo del Titan e l’obiettivo della loro missione, accostandoli a qualsiasi cosa che abbia almeno un vago sentore di esplorazione, di ricerca, d’indagine conoscitiva, di documentaristica ecc, lo troviamo nauseabondo. Rivoltante, addirittura.
Almeno quanto quella consueta aura di fatalità che piace tanto appiccicare addosso alla vicenda, onde creder di poterne parlare in termini di “incidente”, come ogni volta accade nei casi di immersioni subacquee dal tragico epilogo (salvo poi scoprire che alla loro origine c’è invece solo e sempre il “fattore umano”, cioè il comportamento di qualcuno).
Questo perché con tutto quanto sta emergendo dalla sconfortante faccenda, a partire dalle prime indagini sui trascorsi, dalle dichiarazioni di responsabili e autorità, dai pareri tecnici di esperti “veri” nonché da un’infinità di attendibili testimonianze, documentazioni e ricostruzioni sempre più circostanziate, questa è stata la più classica di quelle che vengono solitamente bollate come “tragedie annunciate”.
Non c’è mai stato nulla di “esplorativo” nell’atteggiamento dei passeggeri del Titan né nella loro missione, non solo e non tanto per l’evidenza del mercimonio di biglietti d’imbarco dal costo esorbitante e per tutti gli espedienti al risparmio messi in atto dalla compagnia, ma anche perché non c’è proprio nulla da “scoprire” sul relitto del Titanic che già non si sappia: quel relitto è stato completamente e minuziosamente mappato, in seguito a un progetto di scansioni strumentali durato anni, che ne hanno permesso una ricostruzione grafica tridimensionale impressionante per la qualità dei dettagli, al punto tale da renderlo “visibile” come non sarà mai possibile vederlo dal vero.
Per non parlare delle centinaia di reperti prelevati dai suoi interni o dai suoi dintorni nel corso di decine di missioni precedenti, che sono finiti battuti sui banchi delle aste di mezzo mondo per la gioia di possesso dei soliti facoltosi “predoni” a caccia di trofei. Quelli che, se non possono andarci di persona a prenderseli certi “souvenir”, li comprano…dal miglior offerente.
La missione di quei 5 sventurati ha solo malcelato una curiosità individualistica e morbosa, tradita da tutto l’accaduto. Fregandosene completamente – tra l’altro – di considerare il Titanic non come “il relitto più famoso” ma per quel “sacrario” che in realtà è, avendo trascinato con sé più di 1.500 anime; e che già solo per questo non dovrebbe ammettere alcuna forma di turismo subacqueo. Altroché l’invocato desiderio di scoperta d’odissea ispirazione!
Chi partecipa a simili “prodezze” o le organizza come tali è a nostro avviso molto più paragonabile a coloro che agiscono affetti da ludopatie: al pari dei malati di gioco d’azzardo, infatti, conoscono benissimo le possibili conseguenze delle proprie azioni e non ignorano affatto che potrebbero rivelarsi negative o perfino tragiche; ma le compiono lo stesso. Le vogliono compiere, a qualunque costo. Bramano di compierle. Niente e nessuno può fermarli perché si alimentano di quello stesso rischio che sostengono di aver stimato “sotto controllo”.
E, se possono spendere, si comprano il proprio diritto a viverlo, nella presunzione di comprare con ciò anche l’accondiscendenza del mare, della natura o della sorte; salvo poi scoprire che le leggi della Fisica, in base alle quali quella natura funziona, non le puoi sfidare impunemente presumendo che siano clementi proprio con te. Che debbano fare un’eccezione proprio per te. O che tanto useranno proprio con te il riguardo di concederti un ennesimo avvertimento. Ancora uno. Che dopotutto, se una, due, tre volte è andata bene, non potrà che andar bene anche la quarta.
E invece non ne siamo al di sopra, di questa natura; ne facciamo parte. E può ogni volta farci un mazzo così! Anche se ci piace tanto ignorarlo o dimenticarcene. O incolparne la sfortuna.
Quest’ultima è oltretutto una verità talmente più generale di questa schifosa vicenda che il messaggio che se ne può trarre sarebbe estendibile a un’infinità di altre situazioni in cui l’essere umano mostra verso il pianeta Terra altrettanta presunzione e mancanza di rispetto…ma il discorso si farebbe interminabile.
Qui basta dire che è questo il motivo – caro professore – per cui il messaggio che anche a lei stavolta è piaciuto evidentemente accreditare è quanto di più diseducativo possa esser trasmesso verso il vasto pubblico. Oltremodo fuorviante rispetto a una corretta divulgazione sulla vicenda.
Per la quale lei ha mancato un’occasione d’oro per tacere o per dire chiaro e forte che c’è – da sempre, come lei ben sa – una sottile ma sostanziale differenza tra il coraggio insito nell’anelito alla scoperta e la malsana curiosità guardona; tra la passione propria della ricerca di Ulisse e la bramosia di vertigine dei giocolieri dell’estremo. Alla fin fine, anche tra il fare qualcosa di utile alla conoscenza, cioè a tutti, e il perseguire soltanto il soddisfacimento di un proprio egoistico voyerismo personale.
Poi va da sé che stigmatizzare questa maledetta missione non dovrebbe indurre nessuno a generalizzare né tantomeno far venire voglia a qualche solerte legislatore o governante di “vietare tutto” indiscriminatamente – come purtroppo si usa fare da noi – perché rischierebbe (questo sì) di rivelarsi limitativo dell’iniziativa privata o di spegnere le motivazioni interiori che la sostengono, a cui invece si deve moltissimo del progresso conseguito, della spinta alla modernità e della capacità stessa di sognarla. Di idearla, perfino.
Ma, se anche un dannoso effetto collaterale del genere dovesse verificarsi, la “colpa” sarebbe da addebitare a chi questo tragico fallimento del Titan lo ha provocato o è stato incapace di evitarlo, non certo a chi ne addita ora responsabilità e conseguenze.
Così come l’umana pietà e il dovuto rispetto per le 5 vite perdute non dovrebbero togliere nulla alla facoltà che abbiamo di chiamare le cose con il loro nome, di descriverle per come stanno veramente.
Anche perché è questo l’unico punto da cui ripartire affinché diventi auspicabile che certe inaccettabili tragedie non si ripetano.
Infine, tanto per trattare un esempio storico che getti luce sull’improbabile raffronto buttato là da alcuni tra l’epopea del batiscafo Trieste e la missione del Titan, sempre per sostenere la sussistenza di un qualche spirito esplorativo nelle “imprese” della compagnia OceanGate, eccoci a parlare brevemente proprio di “quel Trieste” che nel remoto 1960 stabilì il “record mondiale” di profondità di immersione raggiungendo con due persone a bordo il fondo della Fossa delle Marianne.
Ebbene, esiste un’avventura romanzesca dietro la sua realizzazione, una storia – vera! – di ingegni ed entusiasmi, quella sì da autentici visionari; che dovettero affrontare – anche loro per pura iniziativa privata e individuale ma autentico spirito pionieristico – innumerevoli ostacoli e difficoltà, al costo di enormi sacrifici anche personali. (È ben narrata e documentata da Enrico Halupca, con dovizia di dettagli, nel suo recente libro “Il Trieste” edito da Italo Svevo Edizioni: leggetelo, vi appassionerà!)
All’epoca l’impresa era sul serio senza precedenti, certo molto più di oggi, così come non esistevano “certificazioni” e tutto si dovette inventare da zero, o da esperienze aeronautiche (!), compresi i test di verifica: eppure ne vennero fatti tantissimi, di continuo, in modo maniacale, sui materiali e su ogni singolo componente, sia isolato sia assemblato, collaudando e “brevettando” soluzioni rivoluzionarie per innovazione – la camera di compensazione dell’assetto del batiscafo era riempita di benzina avio; incomprimibile e, al tempo stesso, più leggera dell’acqua di mare…un’intuizione geniale! – in un’epoca in cui le conoscenze sui materiali non erano certo quelle di oggi e il progresso tecnologico più moderno andava ancora in buona parte creato. Ma una delle misure della volontà di riuscita e al tempo stesso di coscienziosità nel lavoro preparatorio da fare fu la gestione dei costi: perché non si andò al risparmio più spinto, tentando di economizzare su tutto e cercando un immediato ritorno nel sostegno di esosi biglietti turistici, bensì si procacciarono i fondi necessari per coprirli tutti quei costi, per quanto altissimi, preservando così l’indispensabile ridondanza di tutti i sistemi, gli apparati e le sicurezze a bordo.
Dopotutto non fu certo un caso se al suo esordio nelle discese più profonde, quand’era ancora in tutto e per tutto “italiano”, il batiscafo Trieste raggiunse già nel 1953 il fondo della fossa del Tirreno, al largo di Ponza, a oltre 3mila m di profondità; e a distanza di poco tempo arrivò in un secondo tuffo, sempre in mediterraneo, a quasi – 4mila metri di profondità. E solo dopo ci fu il suo acquisto da parte della Marina Militare degli Stati Uniti, in seguito al quale fu lanciato verso l’impresa per cui era in realtà stato fin dall’inizio progettato: i (quasi) 11 chilometri di profondità del punto di Oceano più profondo al mondo. Con l’alabarda triestina issata in torretta, omaggio americano all’originaria paternità italiana. Era il 1960. Un record delle esplorazioni rimasto ineguagliato fino al 2012!
Ma, appunto, si trattò di una macchina progettualmente ben concepita, forgiata dalla determinazione per una riuscita che, sfidando l’incredibile, puntualmente avvenne e senza alcuna conseguenza negativa per i protagonisti umani… né per il loro sogno di Ulisse. Che anzi ne uscì rafforzato per tutta l’umanità.
Ora, si può forse sostenere altrettanto per il Titan? Beh, di certo oggi, con tutte le informazioni che continuano a pervenire, ciascuno può individuare da sé ogni differenza, se vuole.
Come quella tra un illuminato coraggio e l’azzardo più cieco.
NOTA – L’immagine di apertura proviene dal quotidiano “La Stampa”, che ringraziamo. Trattasi di ricostruzione grafica, anche volutamente artefatta nei colori, giusto per mostrare un’approssimazione delle proporzioni rispetto al Titan: nessuna foto può restituirci una visione realistica e così d’insieme per ciò che resta oggi del Titanic. E anche di persona, da un oblò di batiscafo, non vedremmo che per 20/25 metri quadrati alla volta: questa è la superficie massima che gli illuminatori di bordo potrebbero farci osservare abbastanza nitidamente, strappata per pochi istanti al buio totale e perenne dei dintorni. La minuziosissima rappresentazione oggi completamente riproducibile del Titanic ci deriva per la maggior parte da metodi di scannerizzazione sonica rispetto ai quali quelli visivi hanno costituito solo un’implementazione.
1 Comment
Enrico
Ringrazio per la citazione del mio libro sul “Batiscafo Trieste”. Ricordo che gli ideatori di quell’impresa straordinaria che fu il poter osservare 70 anni fa per la prima volta il bateau abissale con un equipaggio umano, gli svizzeri Auguste e Jacques Piccard, con l’aiuto ideale del triestino Diego de Henriquez, erano mossi da grandi ideali “per la Conoscenza e il Bene dell’Umanita”. Questa spinta ideale che li accomuna ai grandi scienziati del passato produsse il Batiscafo Trieste e il successo di un’impresa storica senza precedenti studiata nei minimi particolari nell’arco di circa 10 anni.
Nel caso del piccolo mezzo subacqueo Titan, la preparazione delle immersioni e dei collaudi è stata praticamente azzerata. L’immersione del Titan a 4000 metri è stata ideata quasi come un gioco di azzardo nichilista, nello spregio del valore della vita, che mi ricorda la roulette russa e che era matematico che finisse in quel modo.